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Si intitola “La crisi dell’Europa e i Giusti del nostro tempo” il ciclo di incontri organizzati al Teatro Franco Parenti di Milano con Gariwo - La foresta dei giusti. Martedì 17 (ore 18, come tutti gli altri incontri) gli storici Marcello Flores e Yair Auron e il filosofo Gérard Malkassian discutono su “La prevenzione dei genocidi”. Martedì 14 febbraio “La battaglia culturale contro il terrorismo fondamentalista islamico” è al centro del dibattito tra il politologo Olivier Roy, l’inviato del Sole 24 Ore Alberto Negri, la guida del museo del Bardo di Tunisi Hamadi ben Abdesslem e lo scrittore Hafez Haidar. Giovedì 30 marzo a tema c’è “La crisi dell’Europa”. con il filosofo Massimo Cacciari e i giornalisti Ferruccio de Bortoli e Konstanty Gebert. Giovedì 18 maggio, infine, “I Giusti dei nostri tempi” con il presidente di Gariwo Gabriele Nissim, il filosofo Salvatore Natoli, la scrittrice Gabriella Caramore e Milena Santerini.

Sappiamo chi sono stati i Giusti del passato: coloro che nei tempi oscuri dell’umanità, dal genocidio degli armeni, alla Shoah, ai gulag staliniani, alle atrocità di massa in Ruanda, in Cambogia, nell’ex Jugoslavia, hanno sentito un’empatia nei confronti delle vittime e hanno cercato – nella maggior parte dei casi in solitudine – di salvare delle vite e di difendere la dignità umana.

Ma chi sono i Giusti del nostro tempo? È corretto riproporre oggi questa categoria per indicare che abbiamo bisogno di uomini che possano di nuovo salvare l’umanità dai pericoli di un nuovo imbarbarimento, provocato dall’emergere dei nazionalismi, dalla crisi dell’Europa, dalla scia sanguinosa degli attentati suicidi da parte di coloro che sognano l’apocalisse islamica – come scrive Oliver Roy ne Le Djihad et la mors, il suo recentissimo libro.

Cercheremo di dare una risposta a questo interrogativo nel ciclo di conferenze “La crisi dell’Europa e i Giusti del nostro tempo”, in programma a Milano dal 17 gennaio, che Gariwo ha organizzato in collaborazione con il Teatro Franco Parenti, con il patrocinio dell’Università degli Studi e della Fondazione Corriere della Sera. Due cose però possiamo indicarle subito. Tra i Giusti di ieri e di oggi c’è un’affinità: essi si assumono una responsabilità personale in tempi anormali, quando si manifesta un vuoto politico, morale e istituzionale che rischia di fare emergere i lati peggiori dell’uomo. Il loro esempio ha un effetto benefico, non solo perché questi uomini sono protagonisti di azioni esemplari nello spazio umano e politico in cui sono sovrani, ma perché diventano un fattore di emulazione per l’intera società. Lo spiegò molto bene Spinoza, quando nella quarta parte dell’Eticaargomentò quanto fosse importante per l’uomo circondarsi di persone virtuose, perché potevano rinforzare il suo desiderio a vivere secondo ragione e creare così una reazione a catena: «Il bene che l’uomo desidera per sé e ama, lo amerà con maggiore costanza se vede che anche altri lo amano; e perciò si sforzerà affinché altri lo amino… e farà di tutto perché tutti ne godano».

Inoltre è la forza di attrazione del Bene che sul piano politico, quando gli uomini sono preda di idee sbagliate e vedono nell’altro un nemico contro cui combattere, o rimangono indifferenti alla sofferenza degli esseri umani, può determinare una rivoluzione dal basso in grado di cambiare non solo l’orientamento morale, ma anche il funzionamento delle istituzioni.

Fu questa la grande intuizione politica di Václav Havel, quando a Praga lanciò il movimento di Charta 77. Egli riunì persone di diversa estrazione, socialisti, comunisti, liberali, cattolici, ebrei, e li invitò a sfidare il Potere totalitario non con la forza e la violenza, ma attraverso dei comportamenti morali, con cui ognuno si doveva impegnare a salvaguardare la dignità umana, il gusto della pluralità contro il pensiero unico di stato, il piacere del dialogo e della diversità. Egli poi indicò un metodo di discussione ai partecipanti della Charta: nessuno doveva imporre all’altro in modo autoritario il proprio punto di vista, ma la verifica di un’opinione corretta poteva risultare soltanto da un dialogo ininterrotto e da un confronto continuo in un’esperienza comune. Erano le buone opere che testimoniavano la validità o meno del proprio pensiero. Havel, in questo modo, non solo metteva in discussione, come aveva fatto Gotthold Ephraim Lessing nell’illuminismo tedesco, l’idea che ci potessero essere uomini portatori di una verità definitiva, ma immaginava che il totalitarismo si sarebbe vinto soltanto quando gli uomini avessero capito che il mondo migliore era quello di una democrazia di amici, che finalmente eliminava l’idea del nemico politico.

Ci vorremo ispirare proprio a questa esperienza, che ha rappresentato un grande laboratorio di un comune agire etico, per proporre una Carta dei valori che possa ispirare un codice di comportamento per persone di diversa appartenenza politica, religiosa, culturale, nella crisi morale che rischia di distruggere l’Europa.

La sfida dell’oggi richiede infatti un movimento plurale condiviso e non solo la testimonianza di pochi. Essere giusti oggi significa prima di tutto non farsi risucchiare dalla cultura dell’odio e del nemico che è ritornata prepotentemente sulla scena pubblica e internazionale, e farsi invece promotori del dialogo e della condivisione con l’altro, in un contesto dove una grossa fetta dell’opinione pubblica europea, in buona fede, è convinta che la chiusura in se stessi, nei muri invalicabili della propria nazione, della propria religione, della propria identità, sia la strada maestra per superare l’ansia e la paura verso un futuro incerto, generato dai problemi irrisolti della globalizzazione.

Basta dare un occhio ai social network, come intuì qualche anno fa Zygmunt Bauman in Conversazioni su Dio e sull’uomo, per vedere come molte persone amino sfogarsi con anatemi, rifiutino il dialogo e la riflessione e cerchino nel primo interlocutore il proprio nemico da demonizzare, per affermare la sovranità assoluta del proprio io.

Ma l’espressione più grave della cultura dell’odio e del nemico è rappresentata da un nuovo male estremo che avvelena i rapporti tra gli uomini: è il terrorismo che si legittima in nome dell’islam con una visione apocalittica della storia per mettere alla gogna gli infedeli – dai laici, agli ebrei, ai cristiani, a musulmani accusati di farsi contaminare dall’apertura al mondo. Questa nuova forma di terrorismo, che massacra gente presa a caso e invita i suoi adepti a praticare “piccoli genocidi” che possono diventare sempre più grandi, potrà essere sconfitta solo se se si verificheranno due condizioni.

Un movimento culturale di uomini giusti nel mondo arabo e musulmano che diventi un punto di riferimento morale in quelle società, come dimostra il grande esempio del tunisino Hamadi ben Abdesslem, che non solo ha salvato decine di italiani al Museo del Bardo durante l’attacco del Daesh, ma si è proposto di diventare un educatore al dialogo con gli altri, in un Paese da cui proviene il maggior numero di terroristi partiti per l’Europa e la Siria. Ma soprattutto un movimento plurale di ebrei, cattolici, musulmani, senza distinzione alcuna, che riaffermi il valore del comandamento più importante del nostro vivere civile: non uccidere. Purtroppo questa unità da Gerusalemme a Parigi a Istanbul stenta a crearsi, perché troppi pensano che ci possono essere dei terroristi con dei buoni obiettivi. Ecco la prova più difficile dei Giusti del nostro tempo.

Informazioni e News

Gariwo: la foresta dei Giusti > Giusti tra le Nazioni ital

I “Giusti tra le Nazioni” riconosciuti da Yad Vashem sono più di 20mila. Tra questi gli italiani hanno raggiunto ormai la soglia dei 500 nomi.

Molte delle loro storie sono raccontate nel libro I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei. 1943-1945, curato, per l’edizione italiana, da Liliana Picciotto, storica del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

Dal volume emerge come “la percentuale di sopravvissuti in Italia fu alta per la grande ondata di solidarietà e di attiva partecipazione della popolazione italiana alle azioni di soccorso. Molti italiani sabotarono le vessazioni degli occupanti e compirono atti di generosità salvando in diversi modi gli ebrei: dalla spontanea ospitalità dei contadini e di gente semplice alla creazione di reti clandestine di soccorso”.   

Le cifre elencate da Liliana Picciotto per il periodo successivo all’8 settembre 1943, sono già di per sé eloquenti: circa 43 milioni di italiani nelle regioni rimaste sotto il regime della Repubblica Sociale e dell’occupazione tedesca, a fronte di 32.300 ebrei intrappolati nelle stesse regioni. Di questi, circa 8.000 furono arrestati e quasi tutti deportati. Scamparono alle retate i restanti 23.500. Gli ebrei italiani, completamente assimilati al resto della popolazione, non si distinguevano in nessun modo ed erano quindi facilmente “mimetizzabili”. In quegli anni andarono a rinfoltire le schiere di coloro che per mille ragioni avevano bisogno di aiuto: soldati disertori dopo l’armistizio, partigiani, prigionieri alleati fuggiti dai campi di internamento.

Senza gli italiani che conducevano una vita normale, alla luce del sole, tutti questi gruppi di clandestini non avrebbero potuto sopravvivere: occorreva procurarsi le tessere annonarie per il cibo, i documenti per circolare liberamente, i rifugi dove nascondersi, il denaro per le necessità quotidiane.

L’aiuto ai diseredati e agli oppositori si può annoverare sotto la fattispecie della “resistenza civile”, intesa in primo luogo come “resistenza morale”, declinata nelle varie forme dell’opposizione civile militante o del dissenso e dell’ostilità verso gli occupanti, o ancora del soccorso umanitario o della sottrazione al reclutamento di manodopera coatta. Secondo la definizione di Jacques Semelin richiamata nell’introduzione, “la resistenza civile comprese una serie di comportamenti conflittuali con il potere costituito che si avvalsero non di armi ma di mezzi civili come: il coraggio morale, l’invettiva, l’aggiramento della violenza, la capacità di manovrare i rapporti e di cambiare le carte in tavola a dispetto e ai danni del nemico”. Picciotto distingue inoltre il tipo di soccorso prestato dagli ecclesiastici, non specificatamente indirizzato agli ebrei, ma che  li riguardò in modo speciale “per motivi di quantità e di particolare allarme per le loro vite. Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o semplici iscritti all’Azione Cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale, significativo sul piano ideale ma anche sul piano semplicemente dei rapporti affettivi tra le persone coinvolte”.

Le storie dei Giusti ci raccontano le condizioni di estrema precarietà in cui si svolsero le azioni di occultamento e salvataggio degli ebrei e gli strumenti necessari per attuarle; ci descrivono i diversi livelli di intervento degli attori sociali coinvolti; ci indicano i meccanismi che agiscono a favore di una mobilitazione di forze variegate spinte da un comune sentire morale e le implicazioni politiche che ne derivano.

La narrazione dei Giusti diventa così una forma di approfondimento storico, politico, sociale e morale particolarmente adatto alla sensibilità giovanile, in grado di colpire emotivamente e di catturare l’attenzione a fini didattico-cognitivi. Un esercizio di memoria educativa di grande spessore civico.

Chi sono i Giusti di oggi? Chi contrappone il dialogo al terrorismo

Fiori e bambole nel luogo della strage di Nizza del 14 luglio 2016 (Lapresse)

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